DEFINIZIONE DI RIFIUTO: " IL CONCETTO DEL DISFARSI"- INTERPRETAZIONE "OGGETTIVA" E "SOGGETTIVA"
L’attuale formulazione dell’articolo 183, comma 1,lettera a), del Dlgs 152/06 riporta la definizione di rifiuto: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”; si è in questo modo trasposto, riproponendo nell’ordinamento giuridico nazionale, la definizione comunitaria di rifiuto contenuta nell’articolo 1, comma 1, lett. a) della direttiva 98/2008/Ce, entrata in vigore nel nostro paese il 25 dicembre del 2010 con il D.lgs 205/2010 con il quale ha visto la luce l’attuale versione, modificata ed integrata, del testo unico ambientale.
Da tale definizione risulta evidente che mentre non sussistono particolari problemi circa l’interpretazione del criterio “oggettivo” di identificazione (qualsiasi sostanza od oggetto), maggiori problemi sono sorti in questi anni circa la necessità di interpretare la condizione “soggettiva” del rifiuto ovvero il significato da attribuirsi al termine disfarsi e sulle modalità/condizioni in base alle quali deve basarsi tale accertamento.
Risulta ormai consolidata la posizione della giurisprudenza comunitaria, cristallizzata in varie pronunce della Corte di Giustizia europea, che si fonda su due capisaldi:
a) il termine disfarsi va sempre interpretato alla luce della finalità della legislazione comunitaria ovvero la tutela della salute umana e dell’ambiente contro quelli che possono essere le conseguenze nocive che possono derivare dalle diverse attività quali la raccolta, il trasporto ed il trattamento dei rifiuti garantendo, altresì, un livello di tutela elevato corroborato dai principi che sono alla base dell’azione legislativa europea ovvero quello preventivo e precauzionale;
b) il termine disfarsi va interpretato in senso estensivo e non restrittivo mentre, al contrario, devono formare oggetto di interpretazione restrittiva le esclusioni di determinate sostanze dall’ambito di applicazione della disciplina generale dei rifiuti; in altre parole rimane sottratta al campo di applicazione della disciplina dei rifiuti qualsiasi cosa di cui il detentore non si disfi, non abbia l’intenzione o non abbia l’obbligo di disfarsi (sottoprodotti, and of waste, m.p.s.)
Partendo da tali assunti si è giunti a pronunce giurisprudenziali comunitarie e nazionali di notevole importanza sull’argomento di cui si fornisce un quadro sintetico esemplificativo e non esaustivo:
- Corte di Giustizia Ce, Ordinanza Saetti-Frediani del 15/01/2004: il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzata con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie, non costituisce rifiuto;
- Cassazione Penale, Sez .III 2 dicembre 2014, n.50309 con la quale la Corte confermando la condanna per gestione non autorizzata di rifiuti del titolare di una impresa che acquistava pallets difettati, non riutilizzabili tal quali, e quindi
per ripararli e rivenderli a terzi, ha messo in evidenza come per stabilire se un residuo della produzione sia da qualificarsi come rifiuto o no, occorre considerare l’esclusiva volontà del soggetto che lo produce o lo detiene e non la volontà di colui, cioè un terzo, che può avere un interesse allo sfruttamento commerciale di quel bene non più utile al suo detentore; in altre parole gli oggetti destinati ad essere dismessi sono da ritenere rifiuti.
Nel caso esaminato dalla Corte la stessa concludeva che i pallets erano da considerarsi rifiuti e non sottoprodotti in quanto non era certo sin dall’inizio il loro riutilizzo ma, al contrario, la circostanza che dovevano essere riparati li porta nell’alveo di una attività di recupero che andava autorizzata a norma di legge; in conclusione non bisogna guardare l’interesse che un soggetto può avere su di un bene non più utile al suo produttore/detentore in quanto se tale interesse può essere commercialmente valido certamente non può trasformare il rifiuto in qualcosa di diverso;
- Cassazione Penale, Sez. III 19 dicembre 2014, n.52773 con la quale il supremo consesso ha stabilito che il materiale florovivaistico di scarto depositato in maniera incontrollata su un terreno, è un rifiuto non avendo alcuna rilevanza quale possa essere stata la valutazione “soggettiva” di tali materiali da parte del detentore.
Sulla definizione di rifiuto la Corte di cassazione, Sezione Penale III, si è pronunciata anche più di recente con la sentenza n.48316 del 16 novembre 2016 con la quale è stato ribadito, in coerenza con quanto sopra, che l’interpretazione corretta del concetto di rifiuto è quella ” estensiva” risultando non condivisibile qualsiasi valutazione “soggettiva” della natura dei materiali di cui disfarsi; nel caso in specie si trattava di rifiuti speciali non pericolosi eterogenei quali terre da scavo, Raee, rottami ferrosi, veicoli fuori uso, copertoni, etc.
Con tale pronuncia viene ribadito che, secondo principi generali ormai consolidati, è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta, ma al contrario, ciò che è qualificabile come tale sulla base di dati obiettivi che definiscono la condotta del detentore; nel caso in specie la natura di rifiuto si rileva oltre che dalla diversa natura dei materiali anche dalle condizioni in cui sono stati rinvenuti dal che non poteva non concludersi che di tale materiale il detentore originario se ne era disfatto e che, dunque, nessuna rilevanza andava riconosciuta al fatto che alcuni di questi materiali, singolarmente considerati, potessero essere suscettibili di una riutilizzazione economica.
Dr. Gianpietro Luciano Già Segretario della Sezione Regionale del Lazio- Albo Nazionale Gestori Ambientali
03/02/2017
L’attuale formulazione dell’articolo 183, comma 1,lettera a), del Dlgs 152/06 riporta la definizione di rifiuto: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”; si è in questo modo trasposto, riproponendo nell’ordinamento giuridico nazionale, la definizione comunitaria di rifiuto contenuta nell’articolo 1, comma 1, lett. a) della direttiva 98/2008/Ce, entrata in vigore nel nostro paese il 25 dicembre del 2010 con il D.lgs 205/2010 con il quale ha visto la luce l’attuale versione, modificata ed integrata, del testo unico ambientale.
Da tale definizione risulta evidente che mentre non sussistono particolari problemi circa l’interpretazione del criterio “oggettivo” di identificazione (qualsiasi sostanza od oggetto), maggiori problemi sono sorti in questi anni circa la necessità di interpretare la condizione “soggettiva” del rifiuto ovvero il significato da attribuirsi al termine disfarsi e sulle modalità/condizioni in base alle quali deve basarsi tale accertamento.
Risulta ormai consolidata la posizione della giurisprudenza comunitaria, cristallizzata in varie pronunce della Corte di Giustizia europea, che si fonda su due capisaldi:
a) il termine disfarsi va sempre interpretato alla luce della finalità della legislazione comunitaria ovvero la tutela della salute umana e dell’ambiente contro quelli che possono essere le conseguenze nocive che possono derivare dalle diverse attività quali la raccolta, il trasporto ed il trattamento dei rifiuti garantendo, altresì, un livello di tutela elevato corroborato dai principi che sono alla base dell’azione legislativa europea ovvero quello preventivo e precauzionale;
b) il termine disfarsi va interpretato in senso estensivo e non restrittivo mentre, al contrario, devono formare oggetto di interpretazione restrittiva le esclusioni di determinate sostanze dall’ambito di applicazione della disciplina generale dei rifiuti; in altre parole rimane sottratta al campo di applicazione della disciplina dei rifiuti qualsiasi cosa di cui il detentore non si disfi, non abbia l’intenzione o non abbia l’obbligo di disfarsi (sottoprodotti, and of waste, m.p.s.)
Partendo da tali assunti si è giunti a pronunce giurisprudenziali comunitarie e nazionali di notevole importanza sull’argomento di cui si fornisce un quadro sintetico esemplificativo e non esaustivo:
- Corte di Giustizia Ce, Ordinanza Saetti-Frediani del 15/01/2004: il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzata con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie, non costituisce rifiuto;
- Cassazione Penale, Sez .III 2 dicembre 2014, n.50309 con la quale la Corte confermando la condanna per gestione non autorizzata di rifiuti del titolare di una impresa che acquistava pallets difettati, non riutilizzabili tal quali, e quindi
per ripararli e rivenderli a terzi, ha messo in evidenza come per stabilire se un residuo della produzione sia da qualificarsi come rifiuto o no, occorre considerare l’esclusiva volontà del soggetto che lo produce o lo detiene e non la volontà di colui, cioè un terzo, che può avere un interesse allo sfruttamento commerciale di quel bene non più utile al suo detentore; in altre parole gli oggetti destinati ad essere dismessi sono da ritenere rifiuti.
Nel caso esaminato dalla Corte la stessa concludeva che i pallets erano da considerarsi rifiuti e non sottoprodotti in quanto non era certo sin dall’inizio il loro riutilizzo ma, al contrario, la circostanza che dovevano essere riparati li porta nell’alveo di una attività di recupero che andava autorizzata a norma di legge; in conclusione non bisogna guardare l’interesse che un soggetto può avere su di un bene non più utile al suo produttore/detentore in quanto se tale interesse può essere commercialmente valido certamente non può trasformare il rifiuto in qualcosa di diverso;
- Cassazione Penale, Sez. III 19 dicembre 2014, n.52773 con la quale il supremo consesso ha stabilito che il materiale florovivaistico di scarto depositato in maniera incontrollata su un terreno, è un rifiuto non avendo alcuna rilevanza quale possa essere stata la valutazione “soggettiva” di tali materiali da parte del detentore.
Sulla definizione di rifiuto la Corte di cassazione, Sezione Penale III, si è pronunciata anche più di recente con la sentenza n.48316 del 16 novembre 2016 con la quale è stato ribadito, in coerenza con quanto sopra, che l’interpretazione corretta del concetto di rifiuto è quella ” estensiva” risultando non condivisibile qualsiasi valutazione “soggettiva” della natura dei materiali di cui disfarsi; nel caso in specie si trattava di rifiuti speciali non pericolosi eterogenei quali terre da scavo, Raee, rottami ferrosi, veicoli fuori uso, copertoni, etc.
Con tale pronuncia viene ribadito che, secondo principi generali ormai consolidati, è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta, ma al contrario, ciò che è qualificabile come tale sulla base di dati obiettivi che definiscono la condotta del detentore; nel caso in specie la natura di rifiuto si rileva oltre che dalla diversa natura dei materiali anche dalle condizioni in cui sono stati rinvenuti dal che non poteva non concludersi che di tale materiale il detentore originario se ne era disfatto e che, dunque, nessuna rilevanza andava riconosciuta al fatto che alcuni di questi materiali, singolarmente considerati, potessero essere suscettibili di una riutilizzazione economica.
Dr. Gianpietro Luciano Già Segretario della Sezione Regionale del Lazio- Albo Nazionale Gestori Ambientali
03/02/2017
Luca D'Alessandris